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COP26: le conferenze dell’ONU non recuperano il ritardo sull'azione climatica

Aggiornamento: 22 nov 2021



L’indugio con cui i delegati della COP26 hanno chiuso i negoziati sul clima – programmati dal 2 al 12 novembre, ma conclusi un giorno dopo – riassume in un’ironica metafora il ritardo che l'umanità continua ad accumulare nell’azione contro la crisi climatica. L'evento sul clima dell'anno – o, come alcuni amavano dire, del decennio – è andato avanti al ritmo di "nessun accordo è meglio che un cattivo accordo", ma è effettivamente terminato con un cattivo accordo. Il risultato è il Glasgow Climate Pact, un nome altisonante che maschera un patto sbiadito e che non riflette lealmente ciò che è stata la COP26.


Tra le ragioni che hanno determinato il ritardo ne emerge una in particolare, che è estremamente rilevante: riguarda il dibattito sui combustibili fossili, un tema chiave nella lotta ai cambiamenti climatici, che ha accompagnato e animato tutta la durata dei negoziati di Glasgow, tanto da decretarne il prolungamento.


Una novità… in ritardo

Se c’è un motivo per cui la COP26 rappresenta una svolta rispetto al passato è che, per la prima volta in un accordo internazionale sul clima, compaiono i termini fossil fuels (combustibili fossili). Infatti, sebbene siano ormai passati quasi 30 anni dalla prima COP organizzata nel 1995 dall’ONU, ci sono voluti 26 incontri internazionali perché venisse accettata l’idea che i sussidi ai combustibili fossili siano uno dei problemi principali del cambiamento climatico.



Al settimo giorno di negoziati, l’Inghilterra ha annunciato la comparsa dell’espressione nella prima bozza del documento finale della COP26; la novità ha creato entusiasmo all’interno delle sale della COP26 e sembrava pronosticare un grande balzo in avanti sul tema dell’energia sostenibile. Per di più, al penultimo giorno di negoziati, un gruppo di paesi guidato da Costa Rica e Danimarca ha annunciato la creazione della Beyond Oil & Gas Alliance (BOGA), una coalizione di dodici governi e interlocutori con l’obiettivo di facilitare l’abbandono dei combustibili fossili.


Tuttavia, il prodotto finale di un accordo è sempre il risultato di dialoghi e compromessi, e difficilmente in un ambiente così vasto e variegato è possibile mettere tutti d’accordo. Alcuni attori globali si sono rivelati duri da convincere, e hanno mostrato i muscoli durante il corso dei negoziati. Tra questi, l’India del Primo Ministro Narendra Modi ha avuto un ruolo centrale.



Il ruolo centrale dell’India

Il Primo Ministro indiano aveva inaugurato i negoziati con dichiarazioni ambiziose e più precise di molti altri grandi emettitori, impegnandosi a tagliare le emissioni nette entro il 2070, ridurre le emissioni di carbonio entro il 2030 e aumentare al 50% la fetta dedicata alle rinnovabili all’interno del mix energetico del paese. Se però le promesse iniziali avevano sconvolto per l’accuratezza e l’ambizione con cui erano state presentate, il posizionamento finale dell’India ha destato scalpore per l’esatto contrario.


Il colpo di scena ha riguardato la variazione della terminologia sul peggiore fra i combustibili fossili, ovvero il carbone, che ha scandito le tre bozze precedenti il documento ufficiale. Le aspettative iniziali parlavano di un totale abbandono del carbone, lasciando sperare che anche i paesi più restii fossero determinati a lasciarsi alle spalle l’uso della fonte energetica più inquinante di tutte. Già alla seconda bozza si iniziavano a percepire gli attriti dei delegati indiani, i quali proponevano di aggiungere al verbo phaseout (“abbandono”), l’aggettivo unabated (“inefficiente, difficile da abbattere”), per intendere che fosse solo il carbone non mitigabile con tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 a dover essere abbandonato. La terza bozza, quella che sarebbe poi diventata il Glasgow Climate Pact, ha definitivamente sciolto le speranze di chi si augurava un impegno deciso sul tema del carbone. Infatti, la proposta dell’ultimo minuto, avanzata dai delegati indiani e accettata da tutti per mancanza di tempo, è stata l’espressione phasedown unabated coal (“riduzione graduale del carbone inefficiente”).


Meglio di Madrid, ma peggio di Parigi

Meglio di Madrid 2019, ma decisamente peggio di Parigi 2015: così si potrebbe riassumere il bilancio della COP26. Infatti, se per alcuni la conferenza di Madrid si era rivelata un totale fallimento, Glasgow è riuscita a colmare il vuoto lasciato nel 2019, ma sembrerebbe non aver fatto grossi passi avanti.


Se non altro, Glasgow e Parigi hanno in comune i colpi di scena. Entrambi gli accordi sono stati decisi da compromessi dell’ultimo minuto, che hanno alterato l’effettività dei provvedimenti. Nel 2015 erano stati gli Stati Uniti a chiedere un cambiamento dell’ultimo minuto: all’espressione “i paesi sviluppati dovranno”, gli USA avevano chiesto un singolo cambio di parola, preferendo il termine “dovrebbero”, che di fatto annullava la natura vincolante dell’Accordo di Parigi. Questa volta invece, è stato un altro grande emettitore ad annacquare l’accordo, uno che rappresenta come la transizione ecologica non significhi lo stesso nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo.


Nel complesso, COP26 sembra non aver soddisfatto nemmeno le aspettative dei partecipanti. Iniziata con l’appello di Boris Johnson “se fallisce Glasgow, fallisce tutto”, la conferenza si è chiusa con la commozione del presidente da lui stesso nominato, Alok Sharma, quasi in lacrime mentre si scusa per l’annacquamento del passaggio sul carbone.



Seppur facendo piccoli passi avanti, il Glasgow Climate Pact crea un ulteriore divario ancora una volta rimandato ai posteri, ed in particolare alla COP27 in programma a Sharm-el-Sheik, in Egitto, il prossimo anno. Ci auguriamo che le analisi di Saleemul Huq, il quale sostiene che le COP hanno più successo quando tenute in posti soleggiati, possa spiegare il fallimento della COP26 e l’auspicabile successo della COP27.







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