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HOW WILL WE LIVE TOGETHER - A REVIEW

Posticipata di un anno a causa della pandemia, la Biennale d’Architettura di Venezia ha riaperto le porte ai visitatori a maggio 2021.


Ci siamo recati alla 17esima Biennale Architettura per restituire a Voi lettori ciò che i nostri occhi sono stati capaci di catturare, penetrati tra le sale di quel polmone verde di Venezia che sono i giardini della Biennale, attraverso in ultimo i lunghi corridoi dell’Arsenale.


Ad apertura del decennio chiave per l’Agenda 2030, la Biennale di architettura non ha saputo deludere i suoi visitatori, ospitando architetti e collaboratori da svariati studi di ogni parte del mondo che con le loro installazioni hanno documentato e sensibilizzato i curiosi osservatori su temi come società e sostenibilità, facendo a gara per chi meglio avrebbe saputo rispondere al quesito, titolo di questa storica mostra: How will we live together? Tra le installazioni c’è stato chi ha optato per rendere angosciante il cambiamento climatico, con gocce che cadevano da picchi di finti ghiacciai capovolti che pendevano dal soffitto, e chi ha sollevato ulteriori domande e dubbi per il futuro, materializzati in una tavola di legno imbandita di suppellettili bizzarri e non convenzionali, come forchette costruite con rametti e scarti di plastica. E’ questa l’idea di Anab Jain (India/Regno Unito, 1976) e Jon Ardern (Regno Unito, 1978) di Superflux, Londra, (Regno Unito, 2009) in collaborazione con Sebastian Tiew (Malesia, 1994), che ipotizzano una civiltà emersa dalle rovine di questo nostro mondo che andiamo rovinando, in cerca di nuovi modi per vivere in comunità.


La mostra tuttavia non è rimasta cristallizzata nell’atmosfera pre-pandemia perché alcuni padiglioni, come quello della Germania, sono stati capaci di darci un’idea di una realtà dopo il Covid. The New Serenity ci proietta nel futuro 2038, in un mondo toccato da disastri economici ed ecologici globali. Nel caso di quest’ultima installazione, il visitatore entrato nella struttura può muoversi per le sale facendo attenzione a dei minuscoli specchi tondi posizionati sul pavimento e distanti circa due metri l’uno dall’altro, punti di riferimento per ciascun individuo presente. Questo senso di distanza pare anticipare un possibile nuovo concetto di spazio personale nella prossima vita libera dalle costrizioni del virus.



I molti visitatori che hanno rivolto critiche ai Giardini della Biennale, devono riconoscere che, nonostante l’Arsenale abbia saputo stupire nel suo percorso tra sculture, simulazioni di ambienti dello spazio, boschi di luci e cristalli, i padiglioni immersi nel verde sono stati capaci di far sentire "a casa" chi ha attraversato quegli ambienti. Mi riferisco in particolare al Padiglione dei Paesi Nordici con la loro esaltazione del legno a vista. Il legno diventa protagonista dei sensi con il suo calore e consistenza, il suo profumo pungente, il suo scricchiolio sotto nostri passi e i colori dalle varie tonalità di marrone, percorsi da molte venature. Infine, in questo ambiente predisposto ad una vita in comunità, dominano la sala principale imponenti alberi che si perdevano con i loro rami nel soffitto. In questo modo, il legno viene restituito anche come concetto simbolico, con l’elemento dal quale si ricava. Ciò che rimane, una volta lasciata questa dimensione unitaria costruita con gli altri visitatori, è la consapevolezza che gli architetti abbiano voluto ricostruire uno spazio abitativo condiviso e sostenibile, dove gli utenti si ritrovino a riflettere su quali siano gli elementi fisici capaci di influenzare il proprio “sentirsi a casa”.


Proseguiamo poi nel Padiglione della Danimarca. Il legno, ancora presente, va ad affiancare l’elemento uditivo e visivo dell’acqua, che scorre per le stanze. Con ciò, i visitatori all’ingresso vengono accolti con infusi caldi di rosmarino e lavanda, che vengono poi sorseggiati percorrendo una passerella al di sotto della quale scorre un rivolo di acqua recuperata dalla laguna. Questa convivenza con l’elemento idrico può essere vista come costrittiva e governata dagli elementi architettonici, come nel caso di Venezia che domina la laguna. Con i cambiamenti climatici infine, l’elemento idrico rischia di passare invece da elemento di armonia a pericolo.


Ogni padiglione è stato capace di raccontare la storia del proprio Paese, ma senza far mancare uno sguardo anche al di là dei propri confini, come nel caso della Francia, dove le pareti sono state tappezzate di fotografie degli abitanti di: “GHI del Grand Parc”, Bordeaux e “la Cité de transit de Beutre”, Mérignac (Francia) – Kliptown, Soweto (Sudafrica) – edificio KTT, Hanoi (Vietnam) – Southwest Detroit (Usa), dove l’architettura viene messa in contrapposizione alla vita quotidiana in un mondo in continuo cambiamento.


Il concetto di confine è il protagonista del Padiglione Svizzera, con il titolo Orae - Experience on the Borders, dove gli espositori e curatori Fabrice Aragno, Mounir Ayoub, Vanessa Lacaille, Pierre Szczepski ci accompagnano nel loro viaggio sul limitare del loro Paese, attraverso storie di gente comune nelle proprie case immerse nel verde, come per Jaqueline, che ammira ogni giorno il lago Costanza dalla finestra del soggiorno. Qui il confine è per lei un concetto inesistente, spazzato via dalla prospettiva del lago. Tuttavia si può dire che forse in realtà un border in qualche modo esiste, ma è cangiante, rappresentato dal vento che spinge le nuvole sul letto del lago nel plastico espositivo. Il tour del padiglione è particolarmente stimolante, visto come un workshop on the road.


Infine, concludiamo il nostro accenno ai Giardini nella grande sala espositiva del Padiglione Centrale. Percorrendo le sue labirintiche stanze, il visitatore curioso giunge fino ad un soppalco per muoversi tra fotografie e oggetti vari (cartelli stradali, tronchi e massi), posti su di un gigantesco tappeto colorito. Si tratta dell’opera dello Studio Other Spaces che prende come ispirazione e punto di partenza le Nazioni Unite, in un’immaginaria assemblea multilaterale del futuro, con in testa l’obbiettivo di “dar voce alla natura”. Il grande tappeto altro non è che la nostra Terra, catturata in una fotografia termica.


Lasciamo queste sale nel verde di Venezia per spostarci alle gallerie dell’Arsenale. Se i Giardini hanno saputo stimolare la nostra mente facendoci interrogare su problematiche legate all’ambiente e al concetto di confine come lo viviamo oggi, dalla calma e calore del tè passiamo attraverso installazioni sensoriali soprattutto visive e uditive, capaci di stregare mente e corpo del visitatore. E’ questo il caso di Philip Beesley & Living Architecture Systems Group con la loro Grove, che come fronde di un giardino incantato fatto di “guglie intrecciate, sfere e nuvole digitalizzate”, sormonta i passanti per il lungo corridoio dell’Arsenale. Passare sotto a questa struttura è stata un’esperienza quasi surreale, creata grazie all’effetto 3D di luci e suoni che accolgono il visitatore con tintinnii di cristalli.


E ancora, Refik Anadol Studio e Gökhan S. Hotamişligil giocano la loro installazione più sulle luci, con colori che cambiano e sfumano tra loro in un andamento sinuoso e armonico, percorrendo le curvature di quelli che sembrano petali o funghi stampati in 3D appesi in alto. Questi, altro non sono che reti neurali umane, in quanto Connectome Architecture sfrutta la neuroscienza, amalgamata ad architettura e arti visive.


Percorrendo quelli che paiono interminabili corridoi, passiamo tra ricostruzioni di futuristiche stazioni spaziali, esperimenti di ecosistemi artificiali, plastici di future vite di comunità. Camminiamo su schermi interattivi che simulano acqua e giardini in fiore. Giochiamo con strutture che reagiscono con suoni ad ogni nostro passo per poi farci incuriosire da una torre di fili elettrici e turbine di ventilazione, il tutto accompagnato da rombi assordanti. E’ questo Entanglement, opera del Padiglione Irlanda. Il senso di irrequietezza che percepiamo è ben funzionale alla rappresentazione dell’incombenza della tecnologia oggi.


Se i Giardini si sono per lo più focalizzati sul presente, l’Arsenale ci ha trasportati nel futuro, portavoce di un’architettura che sa tenere conto anche dei cambiamenti climatici e delle relative conseguenze. Esempio curioso è stata la proposta dello StudioLibertiny con l’innovativa BeehiveArchitecture. Qui le strutture prendono forma grazie alle api, architetti di alveari. I piccoli insetti, a rischio di estinzione con l’aumento delle temperature e l’aggressivo uso di pesticidi, sono infatti impiegabili in strutture architettoniche a larga scala, ma anche per la progettazione di rivestimenti edilizi leggeri.




Chi ha scelto di rendere protagonista a tutto tondo in clima è stato però il Padiglione Italia con Comunità Resilienti. Le installazioni in quest’ambiente portano il visitatore a interrogarsi sui cambiamenti climatici facendo leva su esempi legati al contesto italiano (desertificazione del sud, riduzione della disponibilità di acqua dolce, sistema agricolo in crisi) e su come l’architettura debba agire. Interessanti sono alcune delle proposte tangibili che gli espositori hanno presentato, come il robot del comune di Peccioli. Mobot aiuta infatti gli abitanti (in particolare le utenze deboli) della cittadina a fare la spesa. Questa soluzione consente da un lato di preservare il fragile centro storico, e dall’altro di combattere le emissioni e l’inquinamento causato dal traffico.


Entrando poi in una spirale di veli, esploriamo nuovi materiali e tessuti che potrebbero essere la soluzione per l’edilizia del futuro. Ci imbattiamo così in Bio Lino, tessuto Spacer, fondi di caffè trasformati in un materiale biologico, ottimo per l’isolamento, così come lo possono diventare piante viventi (Moss Column).


La vittoria di questa biennale se l’è aggiudicata il Padiglione Emirati Arabi Uniti. La semplicità del grigio cemento non è fatto per stupire. Non vi è l’obiettivo di stimolare i sensi con artifizi sonori e luminosi. Non si tratta di una composizione esteticamente appagante per l’occhio comune. Non pone interrogativi, Wetland è invece un messaggio di speranza, una soluzione alle esigenze dell’architettura del nostro mondo. Wael Al Awar e Kenichi Teramoto, insieme ad un team di scienziati, presenta le sabkhah (o sebkha), ecosistemi salini dotati di un’ottima impermeabilità. Se impiegati in edilizia sarebbero in grado sostituire il classico cemento Portland, responsabile dell’8% delle emissioni mondiali di anidride carbonica.


Lasciamo questa mostra con uno sguardo rivolto verso il futuro. How will we live together non è un quesito che si risolve con la Biennale Architettura di Venezia, ma un concetto su cui riflettere ogni giorno, che si arricchisce sempre più di nuove prospettive. Una risposta univoca non si può dare, ma certamente noi ci portiamo a casa un bagaglio di soluzioni, ulteriori interrogativi e nuove tematiche ambientali, sociali e culturali, faro di speranza per l’architettura e il mondo di domani.


(Foto e recensione a cura di Nora Avventi, Chiara Mazzei, Silvia Paganin, Claudia Prosodocimo, associati Ca'Foscari for SDGs)








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